La nostra rubrica Industry Insiders, dedicata alle interviste con i professionisti della moda, prosegue con Simone Marchetti, fashion editor de La Repubblica, tra i quotidiani più importanti a livello nazionale. Il suo spirito di attento osservatore delle dinamiche del mercato unito alle sue acute recensioni ne hanno fatto una delle voci più autorevoli del settore, mentre il suo stile inconfondibile lo ha reso uno dei personaggi più fotografati durante le Fashion Week. Ecco cosa ci ha raccontato.
Abbiamo appena assistito ad un’altra settimana di sfilate e presentazioni a Milano. Se ne discute tanto e, quindi, ci piacerebbe conoscere la tua opinione. Le Fashion Week hanno ancora senso così come sono oggi?
Ha senso lo show, nel senso dello spettacolo. Forse bisogna pensare ancora di più alla dimensione teatrale e d’intrattenimento e non solo alla sfilata tecnica (questa sì, forse ormai datata). E soprattutto non bastano quattro collezioni l’anno: trovo interessante, a riguardo, la nuova strategia di Moncler con gli 8 designer coinvolti per altrettante collezioni che servono per dialogare costantemente, quindi quotidianamente, con i propri clienti.
New York, Londra, Milano e Parigi: quali sono, secondo te, le principali differenze tra queste capitali della moda e come credi si evolveranno?
Spesso si fanno critiche e si lanciano strali sulle fashion week. New York è ora nell’occhio del ciclone per la mancanza di vere proposte e di vera creatività. A mio parere, ognuna deve avere il coraggio di sviluppare fino in fondo la propria identità senza guardare alle altre capitali. Nella peculiarità, a mio parere, sta il successo di un sistema. Poi entra in atto l’internazionalità. Ma ciò che continua a pagare di più è la creatività. I casi di Gucci e Balenciaga sono esempi lampanti di quanto le idee possano dare risalto a intere fashion week.
In generale, come altri settori industriali, anche il comparto moda si è dovuto confrontare con la rivoluzione digitale. Quale impatto ha avuto sui business model del fashion?
Come quello di un asteroide che, piombato su un pianeta, ne cambia la morfologia, l’ecologia e persino la vita dei suoi abitanti.
Grazie all’avvento dei social, si sono fatti strada nuovi opinion leader, primi fra tutti gli Influencer. Cosa ne pensi?
Penso che si sia scritto troppo e a volte male sugli influencer. Al momento, mi sembrano dei bravi distributori di pubblicità, ovvero di adv a pagamento. Alcuni di loro riescono a formulare contenuti slegati dalla compravendita di spazi pubblicitari e altri ancora immettono creatività nel sistema. Ecco, mi piacerebbe che questi ultimi non fossero solo un fattore marginale ma diventassero più numerosi. La moda non ha bisogno solo di pagine pubblicitarie e di promozione ma anche di creatività e critica.
Vale lo stesso per i consumatori finali che oggi possono esprimere direttamente la loro opinione sui profili social dei brand o tramite i propri. Per le aziende si tratta di una risorsa?
Si e no. Come diceva bene Diana Vreeland, “non bisogna dare ciò che i consumatori vogliono o chiedono ma quello che non sanno ancora di volere”. Rispondere ai bisogni e alle richieste su Instagram è marketing. La creatività è un’altra cosa.
Quali sono state le conseguenze per i media tradizionali? Cosa vedi nel loro futuro?
Siamo nel mezzo di una crisi d’identità e anche di valore. I media tradizionali che oggi soffrono fornivano un elemento di critica e di creatività fondamentale per il sistema intero. Bisogna capire chi davvero sostituirà il loro ruolo e se si può sostituire.
La digitalizzazione ha modificato anche i comportamenti d’acquisto. I negozi fisici sembrano destinati a lasciare il passo all’e-commerce. Sarà davvero così?
Non a mio parere. Non a caso, i tanti citati Millennials secondo le ultime analisi di mercato preferiscono spendere in esperienze più che in prodotti. I negozi ‘fisici’, per sopravvivere, devono vendere esperienze, non solo prodotti. E da Stores devono diventare Storie.
Sembra ci sia anche un bisogno impellente di proposte sempre nuove. Alcuni brand hanno deciso di assecondarle con la strategia del “See Now, Buy Now”. È davvero efficace?
Ogni marchio deve trovare la sua strategia. Il "see now, buy now" può funzionare per alcuni ma non per tutti. A livello industriale e soprattutto creativo, a mio parere, questa generazione di manager e di creativi non è preparata alla rivoluzione del "vedo ora, compro ora".
Ci racconti una good practice nella moda che hai avuto modo di apprezzare?
La passione cambia sempre tutto. La volontà di rischiare è la chiave di volta. E ovviamente il talento, prima o poi, emerge sempre e cambia tutto.
Per concludere, quali sono i consigli di Simone Marchetti ad un brand che vuole avere successo in questo scenario così complesso e in costante evoluzione.
Ancora: passione, rischio, talento. Ai giovani consiglio di fare un po’ di esperienza prima di lanciare il proprio brand. Ai grandi di coltivare sempre e comunque il culto e la cultura del rischio.