Negli ultimi anni l'industria della moda è cambiata radicalmente, sulla scia delle grandi rivoluzioni tecnologiche e del loro impatto sui comportamenti dei consumatori. A poche settimane dalla conclusione delle principali fashion week, facciamo il punto della situazione con Marta Casadei, giornalista de Il Sole 24 Ore.
Un'altra stagione di sfilate si è appena conclusa. New York, Londra, Milano, Parigi: quali sono, in generale, le principali differenze tra queste settimane della moda? Hai notato qualche cambiamento nell'ultima edizione?
Le differenze sono molte. New York è ormai concentrata sui marchi americani, dal DNA più commerciale, molti dei quali hanno sposato delle logiche di mercato innovative come il “see now, buy now” e, quindi, fanno sfilare la collezione che i clienti troveranno già in vendita in negozio. Un ribaltamento di paradigma che, altrove, non ha attecchito: i brand del lusso hanno bisogno di tempo per produrre e hanno scelto di continuare sulla vecchia strada, modernizzandola senza stravolgerla.
Londra è una fashion week di nicchia, se togliamo un gigante come Burberry, e Parigi, senza dubbio, è quella a più elevato contenuto creativo.
Milano, a mio parere, è la più bilanciata: ha grandi nomi e quindi un livello di creatività pronunciata, giovani talenti che portano una ventata di stimoli interessanti. Soprattutto, a Milano va in scena tutta la filiera made in Italy, un'eccellenza che include le seterie comasche, i calzaturifici veneti o marchigiani, il cashmere umbro e la pelletteria toscana, solo per citare alcuni dei nostri distretti eccellenti. L'ultima edizione della Milano Fashion Week ha brillato per coesione - la formula XL ha unito fiere e sfilate, finalmente - e per sinergia. Spero si continui a cavalcare quest'onda.
Com'è cambiata l'industria della moda da quando hai iniziato ad occupartene?
Lavoro nella moda dal 2008 e, in nove anni, non c'è stato un semplice cambiamento, ma una rivoluzione epocale.
Sintetizzarla in poche righe è molto difficile, ma ci provo. Mi concentro su un tema: i social. Poco dopo aver iniziato a lavorare ho aperto un account Facebook su suggerimento di alcuni amici stranieri. Non sapevo come usarlo io, figuriamoci le aziende. Twitter e Instagram, poi, non erano nemmeno all'orizzonte. Poco meno di dieci anni dopo i social sono uno dei grandi attori del sistema moda contemporaneo: hanno accelerato la globalizzazione, ampliato il target delle griffe, abbassando vertiginosamente l'età dei trendsetter e portando le mamme a fare shopping seguendo i consigli delle figlie. Cambiando l'interlocutore, è cambiato anche il modo di comunicare, con blogger e influencer corteggiati da brand che mai li avrebbero presi in considerazione.
Quali effetti ha avuto Internet sui business model del settore?
La Rete, nelle sue molteplici declinazioni, e con la sua fortissima influenza, ha modificato i comportamenti di shopping, aumentando la velocità di fruizione (e conseguentemente portando le aziende a immettere sul mercato nuovi prodotti molto più spesso). Il consumatore non è mai stato così al centro del sistema moda: con un feedback negativo online può creare una "tempesta" e spostando l'attenzione da un brand a un altro, cosa che accade in un batter d'occhio ormai, può mettere in seria difficoltà un business. Il cliente, chiunque egli sia e dovunque si trovi, va nutrito, coccolato, stupito, continuamente coltivato. Oggi è inevitabile.
E quali cambiamenti ha causato anche nel panorama dei media?
I media tradizionali sono entrati in crisi: comprensibile. Oggi chi legge lo fa su Internet e i social sono la prima e più veloce fonte di informazioni (ahimè, a volte, notizie false). Chi resiste ha cambiato pelle, magari non del tutto. Personalmente spero che la qualità dell'informazione online aumenti: in Italia c'è ancora la convinzione che "scripta manent" ma solo se su carta. Invece, paradossalmente, è ciò che viene pubblicato sul web a essere quasi incancellabile.
Parliamo di alcuni argomenti "caldi". Alcuni brand molto importanti hanno deciso di lavorare con il “See Now, Buy Now”, mentre altri come Tom Ford si sono schierati apertamente contro. Può funzionare in Italia?
Penso che le aziende italiane debbano ricevere stimoli continui da ogni parte per mantenere alta l'attenzione sui cambiamenti che il settore sta vivendo. Ignorare il cambiamento non è possibile se si vuole mantenere un business in crescita. Però non significa che ogni stimolo vada accettato passivamente solo perché potrebbe soddisfare una richiesta del mercato. Il "see now, buy now" va incontro alle richieste di un target, spesso molto giovane, che vede su Instagram e vuole. Tutto e subito. Con le sfilate trasmesse in diretta live sui social era inevitabile si andasse a creare uno scollamento tra ciò che vedo e ciò che posso comprare. La strategia più furba è proporre qualche pezzo “instantly shoppable” senza ribaltare il sistema da capo a piedi.
“Digital Influencer”, sei pro o contro questo fenomeno?
Penso che il digital influencer, qualora segnali chiaramente quando sta pubblicizzando un articolo con l'hashtag #ad, abbia il diritto di fare il proprio lavoro. La trasparenza, però, è fondamentale.
“Millennials” è probabilmente la definizione più abusata durante le ultime settimane della moda. Possiamo parlarne anche in un mercato tradizionale come l’Italia?
I Millennials sono una categoria abusata e molto elastica: io rientro in questa fetta di mercato, ma non ho certo l'attitudine digital di un ragazzo under 30, nè il potere di spesa di un mio coetaneo milionario cinese. Le aziende italiane, come ho già detto, devono cogliere lo spunto e sviluppare strategie per non perdere opportunità importanti.
Puoi raccontarci quella che consideri una good practice nella moda che hai avuto modo di apprezzare?
Oggi apprezzo tutto ciò che riguarda la sostenibilità: dal “fashion sharing” agli investimenti che le aziende del tessile, molte delle quali storiche, stanno facendo per ridurre l'uso di sostanze chimiche dannose e inquinanti e l'impiego di energia e acqua. Una volta usciti da questo tunnel del voglio-compro-butto nel quale viaggiamo a gran velocità tornerà la voglia di prendersi cura di sé e di ciò da cui si è circondati. Come l'ambiente.
Per concludere, 3 suggerimenti per un brand che vuole avere successo in un prossimo futuro.
- Puntare sulla qualità. I consumatori la apprezzano, specialmente se a un prezzo giusto. Soprattutto sul lungo periodo.
- Valorizzare la propria unicità. Il tempo delle omologazioni è finito, i prodotti e i brand uguali tra loro non piacciono più. Piacciono le belle storie, le skills, la voglia di creare qualcosa di distintivo.
- Non smettete mai di investire: in voi stessi e nelle vostre skills, nelle persone che vi circondano e lavorano con e per voi, nella tecnologia, da usare con giudizio. Nella crescita.
Mi permetto di segnalarne un quarto: non aver paura del cambiamento, da valutare e da intraprendere alle proprie condizioni. Col freno a mano tirato, però, non si va lontano.